Articolo a cura del Dott. Giancarlo Pasetti, Specialista in malattie infettive ed epatologia
Quando si parla di malattie del fegato il pensiero corre immediatamente alle cause più conosciute: ai virus dell’epatite e all’alcol.
Tuttavia, mentre per i virus è possibile stabilire il nesso diretto tra causa e danno, il ruolo dell’alcol non è esprimibile come assenza/presenza, ma è una variabile continua e dipendente da diversi fattori.
L’eccessivo consumo di alcol è la seconda causa di malattia di fegato cronica: negli ultimi anni in Italia è diminuito il consumo pro-capite, ma è aumentato il numero dei consumatori, tra cui donne e classi più giovani di età.
Quale è dunque la dose-soglia da non superare?
Non esiste un accordo internazionale sulla dose sicura di consumo alcolico, ma piuttosto una quantità di consumo considerata a basso rischio; questo perché un rischio per il fegato esiste a qualunque livello di consumo e aumenta progressivamente aumentando la quantità.
L’organismo umano è in grado di sopportare l’alcol senza evidenti danni entro i limiti di quello che si intende un consumo moderato, che in Italia si identifica per gli uomini in una dose di 2-3 unità alcoliche (U.A.) al giorno, mentre per le donne è di 1-2 U.A.
Per U.A. si intende un “drink” che apporta 12 gr. di alcol.
Un drink corrisponde a 1 bicchiere di vino da 125 ml, a 1 lattina di birra comune (33 cl), a 1 bicchierino di superalcolico (30-40 ml).
Per un consumatore abituale anche quantità di poco superiori a quelle consigliate non danno ubriachezza, specie se distribuite nell’arco della giornata, ma possono danneggiare cronicamente il fegato, in modo proporzionale alla quantità ed alla durata dell’abuso.
L’alcol è assorbito nel tratto gastro-enterico e, in piccola parte, già nella bocca. Una volta assorbito, l’alcol entra nel sangue e raggiunge il fegato, dove è metabolizzato da enzimi specifici: la capacità degli enzimi del fegato è limitata, rimuove circa 0,5 U.A. ogni ora, mentre la concentrazione alcolica nel sangue manifesta i suoi effetti a livello dell’organismo in generale e in particolare sul sistema nervoso.
Esistono diversi stadi di danno epatico da abuso di alcol?
Ricordiamo che da numerose ricerche risulta che le persone abituate a un regolare e moderato consumo di bevande a bassa gradazione alcolica tendono a vivere più a lungo e presentano una minore incidenza di alcune malattie croniche, come la cardiopatia ischemica. Questo è stato messo in relazione alle sostanze polifenoliche e antiossidanti presenti nel vino; è stato inoltre sottolineato che nell’ambito della dieta mediterranea il vino viene in genere consumato a pasto e questo comporta che si raggiungano picchi alcolemici più bassi.
Dell’epatopatia cronica da alcol esistono diversi quadri: la steatosi, la steato-epatite e la cirrosi. Queste forme raramente si presentano in forma pura e aspetti di ciascuna sono presenti, in vario grado, nel singolo paziente.
- La steatosi alcolica si manifesta nella maggior parte dei forti bevitori, ma è reversibile con la sospensione del consumo di alcol e si ritiene che non sia una condizione necessariamente legata allo sviluppo di cirrosi. Su un campione di 100 persone che abusano di alcol, 90 presentano steatosi, ma solo il 20-40% svilupperà una cirrosi dopo un periodo di tempo lungo anche molti anni.
- La steato-epatite alcolica cronica è ritenuta la condizione in cui i fenomeni infiammatori e fibrotici stimolati dall’alcol iniziano ad alterare la struttura e la funzionalità epatica.
- La cirrosi alcolica e l’epatocarcinoma infine rappresentano gli stadi terminali della patologia.
Oltre gli effetti cronici, si devono ricordare anche le patologie acute correlate all’assunzione di alcol in elevata quantità, come l’epatite acuta alcolica e/o la pancreatite, che possono mettere a rischio la vita del paziente.
Per approfondimenti:
- Loguercio C., Cotticelli G. Alcol e fegato: un connubio difficile. Giuseppe De Nicola Edit. 2007
- EASL Clinical Pratical Guidelines: Management of Alcolic Liver Disease J. of Hepatology 2012 vol. 57 399–420
- INRAN Linee guida per una sana alimentazione italiana pag 54-65 Revisione 2003 www.inran.it